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TEORIE NEUROBIOLOGICHE DELLA DEPRESSIONE

30/11/2020 22:45

Dr.ssa Gaia Guggeri

cervello, depressione, Neurobiologia della depressione, Plasticità neuronale, Trofismo neuronale, Ipotesi neurotrofica,

TEORIE NEUROBIOLOGICHE DELLA DEPRESSIONE

Le tecniche di neuroimaging hanno permesso di elaborare altre e più innovative ipotesi sulla genesi della depressione, come l'ipotesi neurotrofica, strettament

Grazie anche alle nuove


tecniche di brain imaging, è stato possibile formulare diverse ipotesi sull’eziologia della


depressione


BASI NEUROBIOLOGICHE DELLA DEPRESSIONE


Lo studio delle basi


neurobiologiche della depressione inizia negli anni cinquanta quando nei laboratori


del National Institute of Health di Bethesda, Bernard Brodie osservò che la


reserpina, una molecola ad azione antiipertensiva ed antipsicotica capace di


indurre una sindrome depressiva nell’uomo, produceva nel ratto la quasi totale


deplezione di serotonina cerebrale. Successivamente Arvid Carlson dimostrò che


la reserpina depletava anche i livelli cerebrali di Noradrenalina e Dopamina,


suggerendo, per la prima volta, che queste monoamine potessero essere coinvolte


nel controllo della sfera affettiva e che la riduzione dei loro livelli


cerebrali potesse essere la causa principale scatenante la patologia


depressiva. Questi affascinanti e straordinari risultati motivarono le


industrie farmaceutiche ad attivare linee di ricerca al fine di sviluppare molecole


capaci di aumentare i livelli di monoamine, presumibilmente ridotti in alcune


aree del cervello dei soggetti depressi.


L’ipotesi monoaminergica della


depressione costituì una cruciale e ancora oggi valida base biologica per la


farmacoterapia della patologia depressiva quando fu dimostrato che tutti i


farmaci antidepressivi inducevano in poche ore un marcato aumento dei livelli


cerebrali di serotonina e/o noradrenalina. A distanza di oltre 60 anni la


terapia farmacologica di questa patologia utilizza ancora molecole capaci di


aumentare i livelli sinaptici di serotonina e/o noradrenalina. Lo sviluppo di


queste molecole non solo ha permesso di ottenere farmaci efficaci e con sempre


minori effetti collaterali, ma ha dato anche un contributo fondamentale alla


comprensione dei meccanismi molecolari e cellulari coinvolti


nell’eziopatogenesi dei disturbi della sfera affettiva, emozionale e cognitiva.


L’ipotesi monoaminergica della


depressione (l’antidepressivo in poche ore aumenta i livelli di monoamine nelle


sinapsi) è stata per oltre 40 anni in apparente contrasto con l’evidenza


clinica che dimostra come il miglioramento dei sintomi non avviene prima di 4-6


settimane dall’inizio del trattamento. Questo paradosso ha trovato solo di


recente una spiegazione convincente sia dalla ricerca di base che clinica con


la dimostrazione che un trattamento di 4-6 settimane con antidepressivi, utile


ad ottenere un significativo miglioramento dei sintomi era anche necessario per


stimolare i meccanismi molecolari che modulano


la funzione di specifici geni coinvolti nella espressione e sintesi di


differenti fattori trofici. Infatti, attraverso questo meccanismo i farmaci


antidepressivi sono capaci nel tempo (settimane/mesi) di migliorare la alterata


funzione dei neuroni, rendendoli meno sensibili agli eventi stressanti


attraverso un parziale recupero del loro trofismo con il conseguente parziale o


totale ripristino, nell’arco di mesi/anni, dei volumi di alcune importanti aree


cerebrali coinvolte nella modulazione della sfera affettiva, emozionale e


cognitiva. Pertanto, alla fine degli anni novanta la scoperta che farmaci


sintetizzati e sviluppati per aumentare in tempi rapidi (ore) le concentrazioni


sinaptiche di monoamine erano anche in grado di modificare in tempi più lunghi (settimane)


la funzione di specifici geni capaci di esprimere molecole ad azione


neurotrofica ha suggerito di affiancare alla ipotesi monoaminergica l’ipotesi


neurotrofica.


DEPRESSIONE E PLASTICITÀ


NEURONALE


La depressione è una patologia


cronica, progressiva e ricorrente le cui basi eziopatogenetiche sono associate


non solo ad una disfunzione della trasmissione monoaminergica ma anche ad una


progressiva perdita del trofismo


neuronale con conseguente riduzione delle proprietà plastiche e quindi


l’incapacità di sottopopolazioni neuronali di specifiche aree cerebrali,


coinvolte nel controllo della sfera emozionale, affettiva, fisica e delle


funzioni cognitive, a sapersi adattare agli stimoli ambientali negativi.




neuronepng





Alterazioni nei livelli dei neurotrasmettitori, nell’attività dei


sistemi di trasduzione del segnale e nell’espressione di specifici geni sono


alla base del fenomeno noto come plasticità


cellulare, cioè la capacità dei neuroni di sapersi adattare sia a livello


morfologico che funzionale a stimoli ambientali, endocrini e farmacologici, e


agli stessi insulti stressanti. Studi sperimentali hanno infatti dimostrato che


le proprietà plastiche dei neuroni sono associate a modificazioni nella


morfologia cellulare che possono determinare un aumento o una diminuzione nella


formazione di sinapsi e spine dendritiche, così come in un’estensione o


ritrazione di dendriti. Le modificazioni della plasticità neuronale si


associano a diverse modalità di apprendimento e memorizzazione e sono a loro


volta stimolate dall’ambiente arricchito (ovvero da una condizione ottimale che


fornisce all’individuo una maggiore quantità e varietà di stimoli positivi),


dall’esercizio fisico e dal trattamento a lungo termine con farmaci psicotropi,


mentre sono inibite dallo stress psicosociale e dallo stato di depressione,


ansia, psicosi. Nel loro insieme questi dati hanno più di recente indirizzato


la ricerca a capire i complessi meccanismi di regolazione del trofismo e


plasticità neuronale dando origine a quella che viene definita come ipotesi


neurotrofica della depressione.


IPOTESI NEUROTROFICA


L’ipotesi neurotrofica della


depressione ha origine tra la fine degli anni novanta e l’inizio del nuovo


secolo quando la ricerca sperimentale prima e la ricerca clinica subito dopo


dimostrano che i neuroni cerebrali in seguito a eventi stressanti di varia


natura e di lunga durata vanno incontro ad una perdita di trofismo.


Le ricerche sperimentali hanno


dimostrato in modo inequivocabile che i neuroni del cervello di ratti


sottoposti a stress cronico perdono trofismo e mostrano una riduzione sia della


ramificazione dendritica che della densità delle spine dendritiche.


Parallelamente a queste evidenze la ricerca clinica ha dimostrato che il volume


di alcune aree cerebrali (ippocampo,


corteccia prefrontale, nucleo accubens) di soggetti con depressione grave,


non trattata farmacologicamente o che hanno subito gravi traumi psicologici è


significativamente ridotto rispetto ai soggetti sani.


La scoperta sia a livello


sperimentale che clinico che il trattamento con i farmaci antidepressivi


reverte in modo significativo l’ipotrofismo neuronale indotto a livello


sperimentale dallo stress cronico così come la riduzione di volume di alcune


aree cerebrali presente nella patologia depressiva, ha suggerito che questi


farmaci nati per ripristinare i ridotti livelli di serotonina e/o noradrenalina


hanno anche la capacità di ripristinare almeno in parte l’ipotrofismo neuronale


e le conseguenti alterazioni funzionali della sfera affettiva, emozionale e


cognitiva ad esso associate.


L’evidenza che tutti i farmaci


antidepressivi hanno la capacità di attivare, anche se in modo totalmente


aspecifico, differenti geni capaci di esprimere sia fattori trofici che


molecole del sistema immunitario capaci di modulare i meccanismi regolatori del


trofismo neuronale, ha portato nuove conoscenze sui meccanismi eziopatogenetici


della patologia depressiva. In particolare, questi studi hanno evidenziato che


i fattori trofici di origine neuronale (Brain-derived neurotrophic factor o


BDNF) e gliale (Glial cell-derived neurotrophic factor o GDNF) svolgono un


ruolo cruciale nel mediare gli effetti dei farmaci antidepressivi sul trofismo


neuronale.


 


LA NEUROGENESI


L’evidenza che il BDNF e altre


molecole trofiche svolgono un ruolo cruciale nel meccanismo di differenziazione


e proliferazione di nuove cellule, fenomeno che si verifica in condizioni


fisiologiche nel cervello umano dall’infanzia, all’adolescenza fino alla


vecchiaia e risulta essere cruciale nel controllo dei meccanismi adattivi agli


eventi stressanti, agli insulti patologici, ai trattamenti farmacologici,


suggerisce che la neurogenesi è un fenomeno strettamente connesso all’ipotesi


neurotrofica. Infatti, l’integrità funzionale delle vie metaboliche che portano


alla sintesi di fattori trofici e alla proliferazione di nuove cellule è


considerata cruciale per garantire alla cellula adulta come a quella neoformata


le risposte adattative migliori e più immediate. Al contrario, la ridotta


espressione genica dei fattori trofici e del processo di neurogenesi dovute a


stress prolungati o a particolari fattori genetici (polimorfismi) si pensa


possa avere un ruolo cruciale nell’aumentare la soglia di vulnerabilità ai


disturbi del tono dell’umore e/o nel ridurre la resilienza nei soggetti


depressi.


La neurogenesi (differenziamento


e proliferazione di nuovi neuroni) è un processo biologico ben documentato nel


cervello dei mammiferi, dai roditori fino ai primati, uomo incluso.


Questo fenomeno è molto intenso


nell’età infantile e adolescenziale, si riduce significativamente nel cervello


adulto ed è ancora presente nel cervello dell’anziano. Importanti e


recentissimi studi hanno dimostrato che questo affascinante meccanismo di


rinnovamento del cervello attraverso l’espressione di nuovi neuroni viene


marcatamente potenziato da condizioni ambientali favorevoli quali l’ambiente


arricchito, l’apprendimento, una dieta bilanciata, l’attività fisica e


soprattutto da un adeguato numero di ore di sonno ristoratore. Non a caso la


melatonina potenzia in modo significativo il differenziamento delle cellule


staminali e la proliferazione dei neuroni, mentre la deprivazione di sonno,


così come altri stimoli stressanti, una dieta inadeguata, la vita sedentaria e


la mancanza di interazioni sociali e motivazioni inibiscono questo fenomeno. È


rilevante sottolineare che l’alcool e molte sostanze d’abuso inibiscono il


differenziamento delle cellule staminali e la proliferazione dei neuroni e


cellule gliali riducendo significativamente il processo di neurogenesi soprattutto


nel cervello dei bambini e degli adolescenti. Al contrario, tutti i farmaci


antidepressivi potenziano la neurogenesi favorendo il differenziamento e la


proliferazione dei neuroni.


È interessante sottolineare che la neurogenesi sembra essere associata alla


capacità del cervello dei mammiferi, uomo incluso, a memorizzare i ricordi


recenti, fenomeno che si riduce significativamente nel cervello che invecchia


nel quale il processo di neurogenesi è notevolmente ridotto.


REMISSIONE E RECIDIVA: ASPETTI


NEUROBIOLOGICI


Uno dei più importanti problemi


della neurobiologia sperimentale e clinica dei disturbi affettivi è capire


quanto un disturbo depressivo sia in grado, se non trattato in modo tempestivo


e adeguato (dosaggio appropriato e protratto nel tempo), di alterare in modo


quasi irreversibile l’omeostasi dei neuroni, in particolare nelle aree


cerebrali quali l’ippocampo, l’amigdala


e la corteccia del cingolo la cui morfologia e funzione risultano essere


alterate da questa patologia. Nei soggetti depressi, nei quali il trattamento


non viene protratto per un tempo sufficiente, il numero di recidive nei mesi


successivi alla sospensione della terapia è sempre marcatamente superiore a


quello dei pazienti trattati per almeno 2 anni. Inoltre, nei pazienti con ripetute


recidive il volume dell’ippocampo risulta significativamente ridotto rispetto


ai valori ottenuti negli stessi pazienti all’inizio della terapia. Questi


risultati suggeriscono che per proteggere il cervello del depresso è necessario


un tempestivo trattamento che preveda dosaggi adeguati e tempi che vadano


decisamente oltre la semplice remissione dei sintomi. In conclusione, la più


recente ricerca neurobiologica dimostra il ruolo cruciale di una ridotta


plasticità neuronale nell’eziologia della patologia depressiva, e suggerisce


che una terapia farmacologica, soprattutto se combinata con un valido supporto


psicosociale o psicoeducativo, possa garantire una migliore aderenza del


paziente al trattamento. Infatti, la terapia farmacologica non può che trarre


vantaggio dall’associazione con pratiche non farmacologiche capaci di favorire


meccanismi che modulano il trofismo e la plasticità cerebrale.


 


neurotroficapng



Figura:


Ipotetiche modificazioni del trofismo neuronale e delle arborizzazioni


dendritiche associate a stress cronico, trattamento con antidepressivi e


sospensione precoce della terapia. AD = antidepressivo.


Gli= Le cellule della glia, dette anche cellule gliali, sono cellule che,


insieme ai neuroni e ai vasi sanguigni, formano il sistema


nervoso. Hanno funzione nutritiva e di sostegno per i neuroni,


assicurano l'isolamento dei tessuti nervosi e la protezione da corpi estranei


in caso di lesioni. 


In conclusione, consolidate evidenze neurobiologiche dimostrano


che i neuroni del soggetto depresso presentano una perdita di trofismo e


plasticità neuronale che ne limitano il migliore adattamento agli stimoli


ambientali negativi. Le stesse evidenze dimostrano come gli antidepressivi


attivano, anche se con meccanismi aspecifici, la funzione di geni coinvolti


nella sintesi dei fattori trofici. L’efficacia clinica del trattamento con


antidepressivi è associata alla capacità di questa classe di farmaci di


ripristinare e mantenere nel tempo le proprietà plastiche del neurone.


L’evidenza che la sintesi di


fattori trofici e l’attivazione di meccanismi epigenetici ad essa associati


viene stimolata anche dall’esposizione ad un ambiente positivo, dall’attività


fisica, dalla corretta alimentazione e da altre buone abitudini di vita,


suggeriscono che nel trattamento della depressione l’efficacia della


imprescindibile terapia farmacologica può essere potenziata con l’ausilio di un


valido supporto psicosociale e psicoeducativo, e con l’impiego concomitante di


pratiche non farmacologiche capaci di favorire meccanismi trofici e la


plasticità cerebrale, ovvero la psicoterapia.


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